PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI XXIII - IL SEGRETARIO FEDELE

INTRODUZIONE

Non bisognava tentare il suo cuore. Nessuno fece appello ad esso invano: tutto ciò che Angelo Roncalli scriverà del suo vescovo si può riassumere in queste parole. Fanno parte di quella «sapienza del cuore» che sarà il segno distintivo del futuro Papa; e rivelano quale lezione evangelica egli ricevesse, giorno dopo giorno, per dieci anni, dall'uomo di cui fu segretario.
Eppure, è stato giustamente osservato che raramente due uomini furono tanto diversi come Radini Tedeschi e Roncalli. Ciò che li unì fu sempre l'amore della verità e il rispetto delle anime oltre al comune zelo che per esse nutrirono ambedue per tutta la loro vita. Radini era di famiglia nobile, oriunda elvetico-tedesca, trapiantata a Piacenza. Era nobile anche nel portamento, non senza qualcosa di marziale. Ciò che appariva più evidente in lui era la lotta costante contro gl'impulsi della sicurezza e dell'amor proprio: sarà questa lotta infatti che formerà l'esempio ascetico che il giovane Roncalli dichiarerà molte volte d'aver più ammirato nel proprio maestro.
Roncalli era di taglio contadino, sereno, senza impulsi incontrollati, anche se per lui come per il suo vescovo, a quanto risulta dal Giornale dell'Anima, la lotta contro l'amor proprio dovette essere incessante. Aveva maggiore disponibilità a prendere le cose con pazienza, a star sereno di fronte alle contrarietà, a sanare le polemiche con il tempo e con la dolcezza dei modi, non rinunciando, quando occorreva, ad una vena di limpido umorismo che invece dovette restare sconosciuto a Radini.
Fu lo stesso Radini a volere Roncalli per segretario. Chi sa che non abbia di proposito cercato qualcuno che gli fosse, in un certo senso, complementare. Si dice che in un colloquio col rettore del seminario romano abbia addirittura chiarito le ragioni della scelta. A mons. Bulgarini avrebbe detto: «Se volessi un segretario che mi tenga allegro, sceglierei don Carozzi. Ma è meglio don Roncalli: mi sembra molto giudizioso». Sotto la scorza aristocratica e la spicciatività militaresca, il vescovo cercava un cuore che battesse accanto al suo, e nello stesso tempo un uomo di giudizio acuto ed oculato, che lo aiutasse nel difficile compito di governare una diocesi come quella di Bergamo, soprattutto in quegli anni.
Mons. Bulgarini fu d'accordo col nuovo vescovo: «Ha ragione; vedrà che con don Roncalli si troverà molto bene. È il più bergamasco, di tutti gli allievi del mio seminario; lo è rimasto fin nel midollo delle ossa. Ma è anche quello che ha saputo meglio "romanizzarsi" ed allargare le proprie vedute». Così, accanto al vescovo che si recava nella cappella Sistina, la mattina del 29 gennaio 1905, tutto vestito di nuovo, emozionato, ma sereno, stava don Angelo Roncalli.
Qualcuno vide nella destinazione di Radini Tedeschi a Bergamo uno dei tanti promoveatur ut amoveatur. A questo punto Pio X doveva necessariamente fare ciò che Leone XIII non aveva fatto: «compensare» Radini Tedeschi di tutte le angustie sopportate.
Pensò a lungo al modo migliore per valorizzare un uomo tanto prezioso. Dato che tutto consigliava di allontanarlo da Roma, il Papa volle offrirgli una possibilità pastorale di primo piano, ed insieme una sede di effettivo prestigio. Cosa poteva essere meglio di Bergamo, la città più osservante ma anche più stimolante del cattolicesimo italiano?
Glielo disse apertamente: «Vi avevano proposto per arcivescovo di Palermo: ho detto di no. Vi hanno proposto per Ravenna: ho detto ancora di no. Vi hanno indicato per Bergamo: ho detto di sì. Andate lassù con fiducia. Bergamo, per ciò che può consolare un vescovo, è la prima diocesi d'Italia». Radini pensò subito a scegliersi un segretario bergamasco; d'altronde, appena don Carozzi e don Roncalli avevano saputo della nomina del vescovo della loro città, si erano recati al n. 21 di Corso Vittorio Emanuele, per rendere omaggio al prelato nel suo palazzo. Fu lì che egli, senza parere, li sondò entrambi e fece la sua scelta.
Don Roncalli diventava segretario di colui di cui sarebbe stato poi anche il biografo. Avendo iniziato a scriverne un semplice elogio funebre, si rese conto, con commozione, che l'opuscolo andava crescendo, e che diventava un grosso libro. In quel volume ciò che colpisce in modo immediato è un fatto straordinario: l'elogio che don Roncalli fa di un uomo del tutto diverso da sé, è, alla fine, il più profetico elogio di se stesso come sacerdote, come vescovo, come Papa. Basta rileggere le pagine del libro - In memoria di monsignor Giacomo Maria Radini Tedeschi - per rendersene conto.
In un primo tempo, quando il segretario aveva visto con quale zelo e generosità personale il vescovo si era impegnato al bene della diocesi, aveva scritto: «Di te parleranno anche le pietre». Ma poi, con il passare degli anni, l'accento fu messo esplicitamente sul cuore di quell'uomo raro, il cui maggior sforzo, molte volte, fu proprio quello di velare, con pudore virile, gli slanci del proprio cuore: «Non bisognava tentare il suo cuore. Nessuno fece appello ad esso invano».

«PER LA PACE... PER LA PACE!»

Il vescovo è, dev'essere il cuore della diocesi. Non è un modo di dire quello che definisce una diocesi vacante come «chiesa vedova». Se ne dovette rendere conto mons. Radini quando mise piede nella dimora di quella città che il Papa stesso gli aveva tanto elogiato. Anche la «diocesi modello» aveva bisogno di molte cose. E di colpo, senza esitazioni, il nobile abituato a tutte le comodità, a palazzi confortevoli, a uffici solenni, si mise con umiltà a conoscere il proprio gregge, da Bergamo ai paesi più sperduti della collina e della pianura, fin dove giungeva la diocesi. Senza perdere nemmeno una sfumatura della sua innata nobiltà di portamento e di modi, mons. Radini si fece «tutto a tutti» con efficacia e passione costanti. Certo, se egli imparò lì a farsi semplice coi semplici, è molto probabile che don Roncalli abbia imparato e approfondito, accanto a lui, quella signorilità di tratto, di modi e di parole che peraltro aveva già avuto in sorte dalla natura, in unione con la concretezza trasparente e sapiente del ceppo contadino da cui proveniva. Vescovo e segretario si trovarono perfettamente a proprio agio, l'uno accanto all'altro, anche nella misura in cui erano diversi.
L'ingresso in diocesi avvenne il 9 aprile del 1905. L'entrata era stata preceduta dagli esercizi spirituali della consacrazione, ma il novello vescovo volle fermarsi ancora a Milano, per implorare da San Carlo Borromeo, l'esemplare sacerdotale più amato dal clero lombardo, la grazia del «buongoverno» spirituale.
È facile intuire lo stato d'animo di don Roncalli in quelle circostanze e in quelle giornate. La figura del suo vescovo stava ingigantendo sempre più ai suoi occhi, e via via che si approfondiva fra i due la consuetudine della preghiera e del lavoro in comune, si andavano arricchendo l'un l'altro di chiarezza e di solidarietà. Li accomunava, oltre tutto, il senso e il gusto del lavoro. Ha scritto di loro il protestante Hatch, nella sua biografia di Papa Giovanni: «Il vescovo era un tipo aristocratico... un carattere molto sensibile e dignitoso nello stesso tempo, estremamente energico, sicuro e tempestivo nelle sue decisioni. Il segretario era il tipico figlio di contadini che parlava italiano con un forte accento dialettale e conservava l'abitudine montanara di procedere con piedi di piombo per non prendere decisioni avventate. Forse, proprio per questa diversità di carattere andarono perfettamente d'accordo. In comune avevano soltanto un fondo di ottimismo e una gran voglia, un bisogno fisico di lavorare. Il vescovo è stato descritto come un essere infaticabile che non concedeva tregua ai suoi collaboratori. Don Angelo poteva testimoniarlo. Non bastavano le ore del giorno per sbrigare tutte le cose che c'erano da fare e pertanto egli prese l'abitudine di dormire soltanto quattro ore ogni notte. La forte fibra di Papa Giovanni gli permise di conservare questa rigorosa abitudine fin quasi agli ultimi anni».
Ci fu dunque una perfetta consonanza di spirito e di dedizione, una paterna e filiale intimità, che resta l'esempio più cristiano ed umano di questo sodalizio. Il futuro Papa Giovanni ha avuto in Radini Tedeschi la misura ideale del «sacerdote secondo il cuore di Dio», e istintivamente - lui che è stato sempre propenso a raccogliere e dare l'esempio in pienezza d'umanità - ha lasciato che il proprio amore crescesse.
Ignaro che la morte lo avrebbe colto, quasi cinquantottenne, Radini volle conoscere subito, direttamente, tutto il suo gregge dovunque esso si trovasse; e cominciò la «visita pastorale», che durò quattro anni. Le trecentocinquanta parrocchie che allora la diocesi di Bergamo contava ebbero modo di conoscere uno degli uomini più energici ed infaticabili uno dei pastori più solerti di quel tempo. Il vescovo non dimenticava in quale considerazione il Papa teneva Bergamo, e sembrava che volesse consumarsi nello sforzo di ridurre effettivamente la diocesi allo stato che Pio X immaginava.
Al suo fianco Roncalli - pur restando semplicemente il segretario - aveva modo di misurare le ampiezze, le difficoltà, il prezzo di un ministero pastorale che era sempre stato la sua aspirazione. Colui che non aveva voluto essere altro che «un buon prete» e tale restare per tutta la vita, vedeva, giorno per giorno, nelle dimostrazioni più diverse, negative o positive che fossero, che cosa essere prete effettivamente significa.
Frequentando le parrocchie più diverse si sviluppò in lui il gusto già vivo della ricostruzione storica di opere e di correnti, l'indagine su uomini e tradizioni. Lo storiografo nasceva e s'irrobustiva, accanto al vescovo, nel sacerdote e nel pastore. Un altro degli aspetti che don Roncalli ammirava di più nel proprio maestro era l'eloquenza tutta religiosa di lui. Pur gustosa e pulita, provveduta e con invisibili radici di sana cultura, si trattava di un'eloquenza mai astratta, di una predicazione che donava effettivamente ciò che significava.
È difficile, anche per un vescovo eccezionale, restar sempre grande davanti al proprio cameriere. E davanti al proprio segretario. Eppure, si sa che per il segretario Roncalli il vescovo Radini restò sempre un esempio e un maestro, anche nel modo di annunziare il Vangelo. Leone Algisi fa osservare: «Di solito non c'è nessuno più disattento del segretario quando - e sono infinite volte - il vescovo deve prendere la parola in pubblico». E lo stesso Roncalli scrive: «Come parlava! Egli aveva il segreto di saper cogliere soprattutto l'opportunità del pensiero, della voce, del gesto, di tutto ciò che rende il discorso intelligibile, piacevole, fruttuoso: un pensiero teologico semplice, talora sublime, una voce, secondo le circostanze, solenne e forte, piana e placida, tenue e soavissima, sempre bella e sempre armoniosa: un gesto sobrio e dignitoso tanto più quanto più solenni erano le circostanze di tempo, di luogo, di persone a cui parlava... Ci si sentiva contenti di appartenere alla Chiesa che di così alta dottrina è depositaria e maestra».
Con Radini, nel 1906, Roncalli era stato in pellegrinaggio in Terra Santa. E di là aveva inviato all'Eco di Bergamo una serie di «servizi» che ne dimostravano già acute le doti di osservatore e di giornalista. Intanto era proprio il suo vescovo ad aprirgli quegli orizzonti di contatto e di testimonianza che molti anni più tardi, a sua volta, egli aprirà, col cuore se non con la presenza, a suoi successori. La sera del 5 gennaio 1964, a Gerusalemme, nell'incontro e nell'abbraccio con Paolo VI, il Patriarca Atenagora I di Costantinopoli, attribuirà allo spirito di Giovanni XXIII - «l'uomo mandato da Dio» - anche il merito di quello storico incontro fra la Chiesa cattolica e quella ortodossa.
Si stavano allargando nello stesso tempo gli orizzonti della formazione culturale di Roncalli. Nel 1908 aveva iniziato - dopo un viaggio a Milano in cui aveva avuto modo di conoscere l'arcivescovo Andrea Ferrari - lo studio e la pubblicazione degli Atti della Visita Apostolica di S. Carlo Borromeo a Bergamo (1575). Nel gennaio del 1909, iniziandosi a Bergamo la pubblicazione del periodico ufficiale della curia, La vita diocesana, Don Roncalli ne era nominato redattore e don Carozzi direttore. Il 23 luglio dello stesso anno diventava socio della Società Storica Lombarda; nel novembre seguente si iscriveva come esterno nella Congregazione dei Preti del Sacro Cuore. L'8 gennaio del 1910 veniva nominato Assistente Ecclesiastico dell'Unione Donne Cattoliche; in aprile funge da segretario sostituto del Sinodo Diocesano indetto da Radini.
L'11 giugno 1911 partecipa col vescovo, a Padova, alle celebrazioni per la beatificazione di Gregorio Barbarigo. Certo quel giorno non immaginava che sarebbe stato proprio lui, Papa Giovanni XXIII, a canonizzare lo stesso Barbarigo, il 26 maggio del 1960. E lo canonizzerà «senza miracoli», cioè senza che si sia avverata una delle condizioni essenziali, secondo il codice di diritto canonico, perché ad un uomo siano decretati gli onori degli altari.
Nel settembre del 1912 compì un viaggio in Germania, Austria, Ungheria, Polonia. Nell'ottobre pubblicò un'opera sulla Misericordia Maggiore di Bergamo. Il 16 aprile è l'ultimo viaggio di Radini, ospite a Torino per la traslazione della salma di Domenico Savio, il futuro santo, da Mondrone d'Asti alla casa salesiana di Valdocco. A Radini non restano che quattro mesi di vita.
Moriva il 22 agosto 1914, per un cancro che lo spegneva ancor giovane, nel pieno delle energie. Per Roncalli, se di edificazione era stata la sua vita, lo fu ancor più la sua morte; lezioni di vita e di morte cristiane che non dimenticherà più, e che ripeterà, egli stesso, nelle mani a Dio come un docile fanciullo, in termini di edificazione e di consolazione universale, la sera del 3 giugno 1963.
Radini era l'uomo che più avrebbe inciso, per sempre, sulla personalità del segretario e del Papa futuro.
Lezione di fede, e lezione di carità, anche sul letto di morte, quella del grande vescovo, che offriva la sua vita per la pace. Era scoppiata da poco la prima guerra mondiale. Roncalli ricorda di aver suggerito lui stesso le intenzioni di quella morte, fra le quali anche quella per la patria: «A questo punto aprì gli occhi, li fissò profondi come in una visione lontana, e con voce chiara e forte aggiunse: "È per la pace... Per la pace...". Io ripresi il mio ritmo pio, sul motivo della preghiera di lui per la pace. Ma egli non mi sentiva più... Mi guardava, mi guardava...».
Il futuro Papa della crisi di Cuba risolta in pace, il Papa della Pacem in terris, è presso un letto di morte e nel clima di una vita offerta per la pace che, mezzo secolo in anticipo, ha imparato a morire e a donarsi.
Due giorni prima di Radini era morto Pio X.
Gerusalemme, città dove Roncalli si reca in pellegrinaggio

LO SCIOPERO DI RANICA

Radini era stato - e resterà sempre - per il giovane Roncalli quello che Kennedy chiamerebbe un «ritratto del coraggio». Il segretario non dimenticò quella lezione. Prudente e sereno era per natura; ma la prudenza fu sempre, in lui, un modo di fare, non un modo di non fare. Ricordava la definizione che di una virtù tanto difficile aveva dato proprio il suo maestro: «La prudenza non consiste nel non fare, bensì nel fare, e nel saper fare bene».
Quando nel 1909 gli operai delle filande di Rànica, una frazione popolare alla periferia di Bergamo, erano scesi in sciopero per un mese e mezzo contro le assurde condizioni di lavoro che avrebbero dovuto subire, Radini, che in questioni del genere si era fino a quel momento tenuto in una specie di dolorosa «neutralità», scese a fianco dei lavoratori colpiti ingiustamente, figurando fra i primi e più generosi sottoscrittori di aiuto per gli operai e per le loro famiglie. Al suo fianco era naturalmente il segretario, che ormai tutti, a Bergamo, chiamavano, in senso ammirativo ed affettuoso, «l'ombra del vescovo». Vescovo e segretario non si contentarono di figurare nella sottoscrizione - anche se per quel tempo ciò era già troppo, agli occhi dei benpensanti - ma ebbero molti contatti diretti con gli scioperanti, destando scandalo in tutti gli ambienti conservatori.
Furono soprattutto i nobili e gli industriali che gridarono allo scandalo, dimenticando che quel vescovo amico dei lavoratori e loro difensore era, oltre tutto, un nobile anche lui. E non si contentarono di protestare con l'atteggiamento. Giunsero molto «in alto», con la loro indignazione. Don Roncalli racconta il fatto non senza una vena d'amara ironia: «Si gridò da molte parti allo scandalo; informazioni in tono non benevolo furono mandate anche in alto. Parecchi, pur fra i buoni, pensavano che una causa perdesse il diritto di essere sostenuta solo perché nell'uso di alcuni mezzi si poteva correre il rischio di qualche intemperanza. Monsignor Radini non seguiva questa filosofia. A Rànica non era in gioco una questione particolare di salario o di persone, ma un principio: il principio fondamentale della libertà dell'organizzazione cristiana del lavoro di fronte all'organizzazione potente del capitale... Lasciò quindi gridare e continuò tranquillo nella sua Via di vivo interessamento per gli scioperanti».
Radini aveva vinto, come vinsero, per quella volta, i filatori di Rànica. E il Papa stesso si mosse, con una lettera autografa, ad approvare il coraggioso vescovo. Il 20 ottobre 1909 gli scriveva: «Noi sentiamo di non poter disapprovare quanto prudentemente avete creduto di fare nella piena conoscenza del luogo, delle persone e delle circostanze». Prudenza e coraggio ricevevano il sigillo di un Papa. Non se ne sarebbe dimenticato, di fronte agli stessi problemi del lavoro affrontati a raggio mondiale cinquant'anni dopo, il Papa della Mater et Magistra.

«UN MONDO IN CONVULSIONI»

Don Roncalli visse piuttosto da lontano e di riflesso la prima guerra mondiale. Richiamato in servizio il 23 maggio 1915, fu destinato, come sottufficiale, agli ospedali di Bergamo; con una breve parentesi al fronte; in un secondo tempo fu nominato cappellano degli stessi ospedali. Ebbe modo soprattutto di vedere le conseguenze della guerra nei soldati che approdavano sanguinanti all'ospedale della città. Anche nel Giornale dell'Anima un avvenimento così tragico e lungo, non occupa, nelle annotazioni di Roncalli, più di due o tre pagine. Egli ne trae soprattutto una lezione per se stesso. Il 13 settembre annotava: «Ieri si chiedeva se la crudezza della disciplina militare, per noi preti di guerra, non fosse anch'essa un tratto della provvidenza, per impegnarci ad apprezzare e ad amare tanto più la disciplina ecclesiastica, così soave al confronto».
Lo interessava soprattutto il bene che aveva avuto occasione di fare ai suoi fratelli. In una nota dell'aprile 1919, segna questo consuntivo della propria vita militare in tempo di guerra: «In quattro anni di guerra, trascorsi in mezzo ad un mondo in convulsioni, quante grazie del Signore per me, quanta esperienza, quante occasioni di fare del bene ai miei fratelli!».
Le «convulsioni» del mondo a cui egli allude nel diario non erano comunque soltanto quelle più tragiche della guerra. C'erano anche le sgradevoli convulsioni di tipo interno, di cui la cattolicità bergamasca dette prova durante il decennio dell'episcopato di Radini. Roncalli poté vedere da vicino, con dolorosa serenità, quanto fosse meschina quella guerra tra uomini della stessa fede. La polemica apertasi nel cattolicesimo bergamasco in quegli anni era indubbiamente anche un segno di vitalità, una crisi di crescenza; ma non per questo era meno sgradevole in molti dei suoi uomini e dei suoi aspetti. Il problema politico restava la causa di tutti i dissidi. La deroga concessa da Pio X a Guindani e a Rezzara alcuni anni prima non poté essere considerata una regola; dopo l'elezione di Agostino Cameroni, si pensava di poter presentare altri deputati, e così entrare gradatamente nell'amministrazione politica del paese. Ma Pio X non era di questo parere.
Al fondo, la questione non era mai stata risolta, nonostante il prestigio personale di Radini. Se nelle Pio X non la pensava allo stesso modo. Erede in ciò, dei punti di vista di Pio IX e di Leone XIII aveva tranquillamente autorizzato l'eccezione, ma non intendeva estenderla a regola, nonostante i risultati positivi che sembrava aver dato. Temeva soprattutto che una volta a Montecitorio, i cattolici sarebbero stati condotti, dagli avversari, a dover affrontare la questione romana ed in particolare il non expedit; un problema la cui soluzione la Chiesa non intendeva certo, almeno per il momento, lasciare in mano ai laici, anche se i migliori di cui disponeva in Italia. Si preferiva puntare piuttosto sull'appoggio cattolico al gruppo dei liberali moderati, contro la coalizione dei liberali e dei socialisti. Naturalmente nessuno poteva essere obbligato a prevedere e anticipare le spinte irreversibili che avrebbero condotto alle possibilità di governo come quelle attuali in Italia. Soprattutto nessuno si sarebbe sentito allora autorizzato a riaffermare, sul versante politico, la grande distinzione che più tradì lo stesso Roncalli, nella Pacem in terris, porterà fra errore ed errante; fra princìpi errati e movimenti che coi tempi ne sono socialmente derivati. La posizione della Chiesa, in quegli anni, restava necessariamente rigida.
D'altronde, nessuno, o quasi, s'illudeva sulle «garanzie» richieste dai cattolici ai liberali moderati. Semplicemente si credeva che rappresentassero il «minor male» e, in buona fede, si accettava la loro alleanza, anche se più tardi si sarebbero dovute portare le più pesanti conseguenze di quella fiducia. Nel 1909 i cattolici bergamaschi, costretti a non figurare in proprio, avevano sostenuto la candidatura di cinque deputati liberali moderati. Deputati di cui dovettero pentirsi molto presto.
Si sperava di non dover subire la stessa delusione per le elezioni del 1913. Il conte Gentiloni praticamente leader dei cattolici italiani, aveva richiamato esplicitamente alle linee tradizionali di condotta politica ed elettorale. Bergamo scalpitava; non intendeva accettare una decisione del centro senza che venisse presa in considerazione la situazione locale del tutto particolare, quella stessa che aveva meritato da Pio X il permesso all'eccezione. Entrò in campo, ufficialmente, anche la direzione diocesana, che contava in don Roncalli l'assistente delle donne di Azione Cattolica e aveva per presidente il Rezzara. Ci furono discussioni e polemiche a non finire. Si intendeva far presente al Papa la candidatura cattolica locale più meritevole, quella del sindaco della città, l'avvocato Preda, in opposizione all'onorevole Crespi, liberale, del collegio di Caprino-Ponte San Pietro.
Non abbiamo documentazione adeguata di quello che realmente provasse, di fronte a quelle polemiche, don Roncalli. Si sa soltanto che, col suo innato buon senso, cominciava a dubitare che si trattasse effettivamente, come molti cattolici bergamaschi sostenevano, di una «lotta di princìpio»: in molti casi, non era l'ambizione personale che annullava di fatto il valore indiscutibile dei princìpi?
Roma intanto temporeggiava, anche in attesa di vedere delinearsi con maggiore chiarezza la situazione locale. Il conte Gentiloni, pur restando intransigente sulla linea affermata, inviava lodi e buone parole al gruppo capitanato dal Rezzara. Ma intanto si invitava il conte Medolago-Albani, ormai dichiarato avversario di Rezzara, a inviare un dettagliato rapporto a Pio X, che lo teneva sempre in grande considerazione. Quel rapporto, manco a dirlo, fu tutta una requisitoria contro l'ala «progressista». Si parlava già, con ironia e sarcasmo che avrebbero fatto strada, di «cacciatori della medaglietta» parlamentare e della corrispettiva prebenda.
Il gruppo di Rezzara stava per essere apertamente sconfessato con una nota durissima che avrebbe dovuto apparire su L'Osservatore Romano. Fu in questa occasione che don Roncalli ebbe modo di constatare ancora una volta il coraggio e la lealtà del suo vescovo. Questi corse a Roma, insieme al segretario, e riuscì ad evitare la pubblicazione della sconfessione del Rezzara. Radini uso un «linguaggio franco e sincero», e seppe «mettere le cose a posto». Naturalmente gli piovvero addosso, da molte parti, biasimi e critiche d'ogni genere. Si disse che egli aveva ormai perduto irrimediabilmente la fiducia del Papa.
Era una cosa che succedeva spesso, in quegli anni. Questa sensazione l'ebbero anche vescovi altrettanto santi, come Andrea Ferrari, arcivescovo di Milano. Le ambiguità della situazione politica, gli equivoci e i retroscena della lotta antimodernista, fecero sì che più d'una volta venissero presentati a Pio X come pericolosi uomini che invece avevano il solo torto d'essere moderni, non modernisti, coraggiosi, non temerari. Radini non nascose il timore di aver amareggiato il Papa, e Roncalli ne scrisse così: «Vi era una tribolazione, una spina acuta che monsignor Radini si teneva confitta nel cuore e lo faceva sanguinare; un sanguinare nascosto e silenzioso, ma non meno vivo e doloroso. Questo prelato che aveva sempre avuto Roma e il Papa al centro dei suoi ideali più puri... si trovò talora nell'incertezza, nel dubbio angoscioso di non meritare più intera la fiducia del Santo Padre. Fu questa la massima prova della sua virtù».
La chiesa annessa al Seminario di Bergamo frequentato da Roncalli

L'AMICO ACHILLE RATTI

Era forse per consolarsi di tante delusioni in campo pratico che don Roncalli andava in quegli anni orientandosi sempre più verso le ricerche culturali. Amava stendere sulla pagina ciò che avrebbe voluto vedere e vivere nella vita; e naturalmente, anche in questo settore, lo attiravano ed interessavano soprattutto i «protagonisti» che avevano contribuito alla grandezza spirituale della Chiesa. Benché il tempo che gli restava a disposizione, accanto a un uomo dinamico come Radini, non fosse molto, trovava sempre il modo di dedicarsi ai suoi libri, e di organizzare sempre meglio le ricerche.
Fu questo ostinato amore per la storia della Chiesa che lo guidò anche a scoperte di valore storico notevole. La più sensazionale - quella che lo riempì d'entusiasmo - la fece a Milano, nell'archivio arcivescovile. Mentre Radini si intratteneva con l'arcivescovo Ferrari, Roncalli, per ingannare l'attesa, era solito scartabellare le carte ingiallite dell'archivio, per ore ed ore.
Un giorno notò in uno scaffale coperto di polvere trentanove grossi volumi composti da larghi fogli di pergamena, coperti di una minuta e regolare scrittura. Il cuore, ad un primo esame, gli dette un tuffo. Si trattava di qualcosa che riguardava San Carlo Borromeo, ed insieme la sua diocesi di Bergamo. San Carlo era stato in visita a Bergamo nel 1575, come «visitatore apostolico» per curare di persona l'attuazione in quella zona dei decreti del Concilio di Trento. Gli atti di quella lunga e laboriosa visita erano ora davanti agli occhi del futuro Papa del Vaticano II. Si riunivano per lui, in quell'opera l'uomo che giudicava uno dei più alti esempi di apostolato e la storia di un periodo lontano della sua diocesi diletta.
Nel viaggio di ritorno dette la notizia a Radini; e il vescovo, con il senso concreto delle cose che lo distingueva, gli promise subito d'aiutarlo per la pubblicazione dell'opera. Ma naturalmente occorreva il giudizio illuminato di qualche specialista. Ci avrebbero pensato insieme. Intanto, ad ogni viaggio di Radini a Milano, Roncalli sapeva ora dove passare il tempo; prendeva una scaletta, vi s'arrampicava in cima e spolverava i grossi tomi dimenticati. L'idea di una pubblicazione critica si andava sempre più chiarendo. Finché Radini gli consigliò di rivolgersi al Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, mons. Achille Ratti, un prete di rara cultura e di straordinario buon senso.
Espose a mons. Ratti lo stato dei documenti, il piano generico del lavoro che intendeva fare, e ne chiese l'aiuto. Ratti non promise nulla di sicuro. Dietro le spesse lenti di miope, c'era un uomo coi piedi per terra, simile in questo a Roncalli, e come studioso non si sarebbe mai esposto con un'iniziativa non criticamente e culturalmente giustificata. Si interessò immediatamente alla cosa, e dovette ammettere che il fiuto di Roncalli era stato fortunato. Fece venire i volumi all'Ambrosiana, permise che Roncalli li facesse fotografare pergamena per pergamena; quindi volle essere lui stesso a disporre in ordine cronologico le negative delle foto a disposizione del commosso pretino bergamasco.
Roncalli conquistò così l'amicizia di Ratti, e ne ebbe la stima come sacerdote e come studioso. Nessuno immaginava, in quel momento, quali strade stava per aprire loro la Provvidenza. La cultura univa in un'unica passione due uomini che avrebbero poi dato il meglio di se stessi in un «servizio» pontificale distinto da una grande passione per la verità, e per l'uomo ma anche arricchito da encicliche che avrebbero segnato momenti decisivi nella storia della Chiesa: Ratti - Pio XI - con quelle sul nazismo, sul comunismo, sul fascismo; Roncalli - Giovanni XXIII - con quelle sulla questione sociale e sulla pace.
Roncalli ebbe l'aiuto di Ratti, e quello in denaro di Radini, per le spese vive che con quella pubblicazione avrebbe incontrate. Ma la fatica sarebbe stata lunghissima, e solo nel 1958 l'opera fu compiuta, con la stesura del quinto volume, a tre mesi appena dall'elezione al pontificato.

SINGHIOZZAVA COME UN FANCIULLO

Se la guerra come tale non era stata vissuta da don Roncalli che di riflesso, il dolore degli uomini, la loro sofferenza d'ogni genere, gli era giunta, in quegli anni, dentro l'anima. Quello che il suo segretario definirà giustamente come «il Papa delle opere di misericordia», ha cominciato soprattutto negli anni della grande guerra ad accettare, con serenità e coraggio, con pietà e totale partecipazione, il dolore dell'umanità. Gli studi amati non lo hanno allontanato, ma avvicinato a quella sofferenza. Ciò che egli ha scritto o commentato infatti, è sempre stata la pietà della Chiesa, nei suoi uomini più sensibili e coraggiosi, verso il dolore dell'umanità. La biografia di Radini è soprattutto la biografia d'un uomo che ha avuto paura della sofferenza e della morte, ma che le ha sapute affrontare da vero uomo e da vero cristiano.
Poche cose, nella sua giovinezza, hanno commosso il giovane Roncalli come le lacrime di Radini condannato a morte dal cancro. Ricorda come lo vide singhiozzare una volta: «Mi fece richiamare. Appena gli fui vicino e mi chinai per sollevarlo un poco, mi sentii ricadere le sue braccia e la sua testa sulle mie spalle in atto di tale sfinimento e abbandono che rimasi a tutta prima smarrito e sorpreso. Monsignore singhiozzava come un fanciullo...».
È accanto a quest'uomo che Papa Giovanni ha imparato a morire. Questo è stato, fin da quegli anni, in un certo senso, il suo «segreto»: la consapevolezza della morte come garanzia di serenità, di trasparenza, di equilibrio e d'impegno per la vita. Anch'egli, come Radini, morirà offrendo la propria vita per la pace, per la Chiesa, per le anime; e vi aggiungerà le intenzioni del Concilio e dell'unione fra i cristiani; le intenzioni che la sua stessa opera di pontefice ha reso possibili, in unione con la speranza di tutto il mondo.
La sua vita di sottufficiale e di cappellano di guerra ha contribuito ad approfondire in lui la pienezza della vita umana, del riscatto cristiano del dolore. Con la morte di Radini era finito il suo lavoro il suo compito di segretario. La guerra lo riprendeva, il 23 maggio 1915, libero e totalmente disponibile al ministero della consolazione per tutti. Si portò via dal palazzo vescovile, per ricordo, soltanto le vesti paonazze usate da Radini nel rito della consacrazione, e lo zucchetto rosso; quello zucchetto che rimane tuttora sullo stipite di marmo di Casa Camaitino, a Sotto il Monte, (accanto a quello bianco che appartenne a Leone XIII) nella casa dove Roncalli, da vescovo e da cardinale, era solito trascorrere le vacanze.
Nell'ambiente della sanità seppe conquistare subito la fiducia e l'amicizia dei soldati. Non riuscì, invece, per molto tempo, a conquistare quella degli ufficiali. Anzi, si trovò quasi sempre avvolto in un clima di disprezzo e di irrisione, in cui non gli mancarono le occasioni per esercitare l'umiltà e la pazienza. Sembrava d'obbligo, soprattutto in quegli anni, un esibizionismo anticlericale, specie negli alti gradi dell'esercito. Dare confidenza e amicizia ad un prete sarebbe parso a molti segno di debolezza o di bigotteria. Come fra gli uomini della scienza e della cultura, anche fra quelli dell'esercito, era di rigore la vera o ostentata miscredenza, e il malanimo verso tutto ciò che significava Chiesa e religione.
Roncalli poi non era certo l'uomo che tentasse di giustificarsi contro i pregiudizi di gente del genere. Si limitava a restare al proprio posto, sereno, paziente, attento a dare, anche se apparentemente a vuoto, l'esempio della pazienza. Con i suoi buffi baffi, con le fasce che sboffavano sempre sulle gambe, con il berretto sempre sghembo, il figlio dei contadini di Sotto il Monte non tirava certo a emulare gli ufficiali impeccabili e velenosi che lo irridevano. Restava fra gli umili, perché sapeva che quello era il suo posto.
Da soldato e da sottufficiale era stato contento di maturare e arricchire in se stesso il senso della disciplina di cui aveva bisogno nella vita ecclesiastica. Da cappellano aveva avuto modo di esercitare il ministero della consolazione e della pietà, nel grado più alto consentito a un sacerdote. Aveva saputo trarre dalle angustie della guerra il massimo del guadagno morale che un cristiano consapevole non può non trarre anche dalla «provvida sventura». Aveva espresso questo impegno in opere concrete, come la fondazione, a Bergamo, della «Messa del soldato», e la coordinazione delle iniziative di assistenza ai militari. Ma quando, nel dicembre del 1918, venne congedato, dette pur sempre un respiro di sollievo. Rientrò in seminario e cercò di organizzare l'apostolato che lo attendeva. Non avrebbe dimenticato l'esperienza della guerra. Annotò più tardi: «Ringrazio il Signore di essere stato sergente e cappellano militare nella prima guerra mondiale. Quanto ho imparato dal cuore umano, quella volta! Quanta esperienza ne ho tratta!».
Del cuore umano aveva già imparato tutto quanto gli sarebbe occorso per penetrare poi, in pochi anni, nel cuore del mondo. Ma è certo, che in misura più o meno consapevole, aveva anche imparato della guerra la lezione negativa e aveva misurato l'inutilità dell'odio e del sangue. Accanto a uomini come Radini, Pio X, Pio XI, Benedetto XV, non avrebbe potuto farsi illusioni, anche se non avesse avuto il cuore che ebbe, sulla malizia intrinseca dell'«inutile strage». I germi della condanna organica e definitiva della guerra quali frutteranno, nella Pacem in terris, la lezione sublime della Chiesa nell'èra atomica, sono già entrati nello spirito di Roncalli soldato e cappellano. Sono gli stessi che daranno al suo pontificato lo slancio per condurre un Concilio ed acquistare, secondo il diritto della coscienza umana, l'evoluzione irreversibile dei tempi, e ad auspicare persino una legge che consenta e regoli l'«obiezione di coscienza».
Esistono, si è detto, pochissime fotografie di Roncalli giovane. La prima è di lui a vent'anni, nel gennaio del 1901, e porta la sua conferma autografa: «Primo ritratto del chierico Angelo Roncalli a 20 anni, Alunno del Seminario Romano - Roma: gennaio 1901». La seconda è di quindici anni dopo, del 1915, la vigilia di andar soldato. Un'altra lo ritrae in divisa di sergente, coi baffi, i filetti e la stella sul berretto; un'altra ancora lo mostra in compagnia dei fratelli Zaverio e Giuseppe, anch'essi in servizio militare. Angelo è vestito da cappellano, con i segni del grado sul colletto, sul berretto e ai polsi.
È necessario tener presente quello sguardo. Non è giusto cercarvi, a cose avvenute, quello che allora non poteva esservi. Ma è certo che nella storia di quest'uomo straordinario anche il «lume del suo volto» ha avuto grandissima importanza.
Sappiamo ora che cosa rivela quello sguardo mansueto e penetrante: una grande simpatia per il mondo, per tutti gli uomini.
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